Quando afferriamo il pacchetto di fette biscottate dallo scaffale del supermercato, difficilmente immaginiamo che dietro quella confezione decorata con spighe dorate e richiami alla tradizione italiana si nasconda una realtà ben diversa. Eppure, proprio questo prodotto che accompagna le colazioni di milioni di italiani merita un’attenzione particolare per comprendere cosa finisce realmente nel nostro carrello.
Il gioco delle apparenze sulle confezioni
Le strategie di marketing applicate alle fette biscottate hanno raggiunto livelli di sofisticazione notevoli. Tricolori che sventolano, immagini bucoliche di campi di grano sotto il sole mediterraneo, riferimenti espliciti al territorio italiano: tutto concorre a creare nell’acquirente la convinzione di star scegliendo un prodotto nazionale, controllato e tracciabile. Ma fermarsi all’impatto visivo della confezione può rivelarsi un errore costoso, soprattutto per chi presta attenzione alla propria alimentazione.
I claim nutrizionali come “ricco di fibre” o “100% integrale” catturano immediatamente l’attenzione di consumatori sempre più orientati verso scelte salutistiche. Tuttavia, queste diciture si riferiscono esclusivamente alle caratteristiche nutrizionali del prodotto finito, senza fornire alcuna garanzia sull’origine delle materie prime utilizzate.
La normativa sull’etichettatura: cosa dice davvero
La legislazione italiana ed europea prevede l’obbligo di indicare la provenienza della materia prima agricola solo per determinate categorie di prodotti. Per le fette biscottate, questo obbligo esiste dal 1° aprile 2020, come stabilito dal Decreto Legislativo n. 33/2018 che ha recepito il Regolamento UE 2018/775 sull’indicazione dell’origine del grano per pasta e prodotti da forno come biscotti e fette biscottate. Le modalità di indicazione lasciano ampi margini interpretativi che non sempre favoriscono la trasparenza.
L’etichetta può riportare formule come “grano coltivato in UE e non UE”, una dicitura tecnicamente corretta ma sostanzialmente poco informativa, consentita quando la provenienza non supera l’80% da un unico paese o quando è mista. Questa genericità impedisce al consumatore di comprendere se il grano provenga da Francia e Germania oppure da Canada, Australia o paesi extraeuropei con standard produttivi differenti dai nostri.
Le zone grigie dell’informazione
Esistono inoltre prodotti che utilizzano farine provenienti da grani miscelati di diverse provenienze. In questi casi, l’indicazione in etichetta segue percentuali di prevalenza: se almeno l’80% del grano proviene da un unico paese, deve essere indicata quella origine; altrimenti, si usa la formula “UE e non UE” senza specificare proporzioni esatte. Un prodotto potrebbe contenere il 51% di grano italiano e il 49% di provenienza extra-UE, eppure l’indicazione principale potrebbe enfatizzare il legame con il territorio nazionale solo se supportato da claim verificabili.
Perché l’origine del grano fa la differenza
Non si tratta semplicemente di campanilismo alimentare. La provenienza del grano incide su aspetti concreti che riguardano la qualità e la sicurezza di ciò che mangiamo quotidianamente.
I grani coltivati in paesi extraeuropei possono essere stati trattati con fitosanitari il cui utilizzo è vietato o fortemente limitato nell’Unione Europea. Ad esempio, il glifosato presenta limiti di residui più alti in alcuni paesi esportatori rispetto ai 0,1-0,7 mg/kg stabiliti dall’UE per il grano. Durante il trasporto via nave, inoltre, possono essere impiegati conservanti e antiparassitari per preservare il carico durante la navigazione, sostanze che i cereali coltivati localmente non richiedono.

Standard produttivi a confronto
I disciplinari di coltivazione europei impongono limiti stringenti riguardo a tipologie e quantità di pesticidi utilizzabili, con limiti massimi di residui armonizzati UE più restrittivi rispetto a standard Codex o USA. I trattamenti post-raccolta ammessi sono limitati per residui come glifosato, mentre i livelli massimi di micotossine tollerati, ad esempio deossinivalenolo (DON) a 1,25-1,75 mg/kg per farina di grano tenero, risultano particolarmente controllati. La tracciabilità della filiera produttiva è obbligatoria per il Regolamento CE 178/2002, con controlli lungo tutta la catena di produzione attraverso audit e certificazioni come GlobalG.A.P.
Questi parametri non sempre trovano corrispondenza negli standard internazionali, creando difformità qualitative significative tra materie prime apparentemente equivalenti.
Come difendersi dal marketing ingannevole
Il primo strumento di autodifesa resta la lettura attenta dell’etichetta, andando oltre le immagini accattivanti del fronte confezione. La tabella degli ingredienti e le diciture sulla provenienza si trovano generalmente sul retro o sui lati della confezione, scritte spesso in caratteri ridotti.
Alcuni elementi possono aiutare a orientarsi nella scelta. Un prezzo significativamente inferiore alla media di mercato dovrebbe far sorgere interrogativi: la materia prima di qualità certificata ha un costo che inevitabilmente si riflette sul prodotto finale. Le diciture vaghe sulla provenienza (“UE e non UE”) rappresentano un campanello d’allarme rispetto a prodotti che specificano chiaramente “grano italiano” o indicano la regione di provenienza.
Le certificazioni di filiera controllata, quando presenti e verificabili come DOP/IGP o altri schemi volontari, offrono maggiori garanzie rispetto a generici richiami all’italianità presenti solo nella grafica della confezione.
L’impatto sulle scelte alimentari consapevoli
Per chi segue regimi dietetici specifici o ha sviluppato sensibilità verso determinati additivi, la questione dell’origine diventa ancora più rilevante. Le tracce di sostanze utilizzate durante la coltivazione o la conservazione possono interferire con percorsi nutrizionali studiati per migliorare il benessere personale.
La trasparenza sulla provenienza permette inoltre di supportare modelli agricoli sostenibili e locali, riducendo l’impronta ambientale legata al trasporto intercontinentale delle materie prime. Una scelta informata diventa così anche un gesto di responsabilità verso l’ambiente e il tessuto produttivo del territorio.
Diverse applicazioni per smartphone consentono oggi di scansionare il codice a barre dei prodotti e accedere a informazioni dettagliate sulla composizione e la provenienza. Alcune associazioni di consumatori hanno inoltre sviluppato database consultabili che raccolgono dati sulla trasparenza delle diverse referenze presenti sul mercato. Informarsi presso il personale del punto vendita, chiedere chiarimenti scritti ai produttori attraverso i canali di customer care, segnalare etichettature poco chiare alle autorità competenti: sono tutti strumenti che il consumatore ha a disposizione per esercitare il proprio diritto a scelte consapevoli e informate, trasformando l’acquisto quotidiano in un atto di cittadinanza attiva.
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